Prima di iniziare a scrivere poesie, Emily Dickinson s’impegnò in un’arte diversa ma sorprendentemente parallela a quella della contemplazione e della composizione: raccolta, coltivazione, classificazione e conservazione dei fiori, che vedeva come manifestazioni della Musa, in modo non dissimile dalle poesie.
Dickinson cominciò a studiare botanica quando aveva nove anni e ad assistere sua mamma nel giardinaggio all’età di dodici anni, ma solo verso i diciotto iniziò a frequentare la scuola di Mount Holyoke dove la sua passione per la botanica fu affrontata con rigore scientifico.
Mary Lyon, la fondatrice e la prima direttrice della scuola, era anch’ella una botanica, formata dal celebre educatore e orticoltore Dr. Edward Hitchcock. Anche se Lyon incoraggiava tutte le sue studentesse a raccogliere, studiare e conservare la flora locale nei loro erbari, solo quello di Dickinson può considerarsi un capolavoro di puntigliosità e straordinaria bellezza: 424 fiori dalla regione di Amherst, che Emily celebrò come i «bei fanciulli della primavera», organizzati con una sensibilità degna di nota tenendo conto delle dimensioni e dei colori in sessanta pagine conservate in un album rilegato con il cuoio.
Sottili etichette di carta punteggiano gli esemplari sulle quali è iscritto il nome delle piante – a volte prediligendo i termini colloquiali, altre quelli scientifici – con la sua elegante grafia.
Quello che emerge è un’elegia del tempo, composta con un’appassionata pazienza, emanando la stessa aura di sensualità e moralità che segna la poesia della Dickinson.
Una delle pagine più belle è quella che raccoglie otto diversi tipi di violetta, un fiore che Dickinson amava più di tutti gli altri per il suo splendore.
Una caratteristica peculiare dell’erbario di Emily è il fiore scelto per la prima pagina: il gelsomino tropicale, e non una pianta locale, ma forse quella che più era in linea con la sua immaginazione.
L’erbario originale è conservato nella sala dedicata a Emily Dickinson presso la Houghton Rare Book Library di Harvard, ma è talmente fragile che nemmeno agli studiosi è permesso esaminarlo e la riproduzione a stampa costa in modo proibitivo al punto che questo capolavoro a metà tra scienza e poesia è finito nel dimenticatoio.
L’Università di Harvard però è riuscita a digitalizzarlo e dunque a renderlo ancora accessibile.